E vitare che il paziente senta dolore. Nasce con questo saldo obiettivo la moderna anestesia nel 1846, a pochi giorni dal Natale. Era il 21 dicembre quando l’europeo Robert Liston sperimentò per la prima volta questo procedimento clinico prima di eseguire un intervento chirurgico. Oggi, a distanza di oltre due secoli, l’anestesia persegue ancora il suo scopo, ovvero quello
di lenire il dolore, ma in talune occasioni lo fa servendosi della tecnologia. In questi casi si parla di “sedazione digitale”. Pur essendo considerata una delle scoperte più sensazionali della medicina, nel ventunesimo secolo questo particolare stato di narcosi, se riferita alle operazioni che non necessitano di una sedazione farmacologica, sarebbe di gran lunga superata senza il progresso della ricerca che consente al paziente di entrare in una fase di tranquillità fisica e mentale, rimanendo sveglio e rispondendo agli stimoli del medico senza sentire dolore.
I tempi più recenti sono stati caratterizzati oltre che da un complessivo miglioramento delle tecniche chirurgiche, e dalla relativa introduzione della chirurgia robotica e della stampa 3D, anche dallo studio di nuovi metodi sofisticati atti a “eliminare la sensibilità” prima di un’operazione chirurgica invasiva. In questo senso la sedazione digitale, che fa uso della realtà virtuale attraverso un visore che riduce l’ansia e il dolore, risulta essere di gran lunga il canale più efficace che consente al paziente di immergersi in una dimensione parallela simulata dal computer.
Una volta entrati in sala operatoria ai pazienti viene richiesto di indossare un visore VR (Virtual Reality), che fornisce un’immagine visiva stereoscopica, creando un senso di spazio e profondità. Un motion tracker all’interno del visore misura la posizione della testa e regola l’immagine visiva di conseguenza. Gli utenti hanno quindi la sensazione di potersi guardare intorno e muoversi
nell’ambiente simulato. Vengono inoltre fornite delle cuffie per l’ascolto di dialoghi e suoni che contribuiscono a creare un’esperienza più realistica e completa.
Una vera distrazione.
È importante precisare tuttavia che in ambito sanitario non è sempre corretto contrapporre l’anestesia alla sedazione digitale, che consuma gran parte delle risorse cognitive del malato. Come anche sottolinea la Fondazione Umberto Veronesi la sedazione digitale può essere utilizzata come strumento di distrazione durante le procedure mediche che il più
delle volte vengono eseguite senza sedazione farmacologica, e nei momenti di disagio per i pazienti che non comportano dolore fisico. Inoltre, viene utilizzata come strumento di sedazione anche prima dell’intervento chirurgico per calmare i pazienti, durante per mantenerli calmi e immobili e per gestirne i sintomi post-operatori. La realtà virtuale può essere utilizzata dunque per ottenere sia distrazione sia sedazione profonda e il suo utilizzo può essere combinato con diversi anestetici e analgesici durante le procedure mediche.
La realtà virtuale si presenta come un insieme di device di input e di output che consente di dare vita ambienti virtuali con i quali il soggetto può interagire. L’immersione, l’interazione e la sensazione di vivere all’interno della simulazione forniscono ai ricercatori tre qualità fondamentali per la creazione di nuove applicazioni in svariati ambiti. Nata con lo scopo di intrattenere e
distrarre le persone, negli ultimi tempi ha creato connessione con diversi altri ambiti, tra questi quello della psicologia al fine di studiare il comportamento dell’uomo e i suoi disturbi psicologici. Grazie alla capacità di elicitare comportamenti simili a quelli del mondo reale, è stata utilizzata per sostituire l’esposizione in vivo nel trattamento delle fobie, nel trattamento di disturbi d’ansia o delle psicosi.
Modificazione della cognizione sociale.
Secondo una ricerca pubblicata su The Lancet Psychiatry la terapia cognitivocomportamentale (CBT) basata sulla realtà virtuale può infatti aiutare a ridurre la paranoia e apporta benefici sulla cognizione sociale nelle persone con disturbi psicotici. In questo caso, come emerso dallo studio, i 116 pazienti con disturbo psicotico su cui sono stati eseguite queste analisi comunicavano con il terapeuta durante la sessione di realtà virtuale descrivendo il pensiero paranoide che scaturiva nella situazione sociale inscenata, permettendo così di abbandonare i “safety behaviors” che solitamente questi pazienti mettono in atto: evitare il contatto oculare, mantenere la distanza e astenersi dalla comunicazione diretta.
Fonte: Health Online